SP34, 8 (Trino, VC)
Prezzo: 8,00 €
Apertura: ogni domenica pomeriggio visita guidata, solo su prenotazione
Il Principato di Lucedio sorge nel comune di Trino, un tempo circondato da terre paludose e incolte boscaglie denominate locez (da cui il nome dell'abbazia), oggi campi coltivati a riso, le cosiddette “grange”.
Cuore del Principato è il complesso abbaziale, molto antico: le sue origini risalgono al 1123, quando un gruppo di monaci cistercensi provenienti dal monastero di La Ferté a Chalon-sur-Saône - in Borgogna - ricevette in dono queste terre dal marchese Ranieri I del Monferrato, della dinastia degli Aleramici.
Coniugando fervore religioso e spirito imprenditoriale, i monaci iniziarono subito a bonificare le terre per metterle a reddito. Grazie alla loro capacità organizzativa - ma più che altro per eludere le imposizioni della Chiesa romana che impediva lo sfruttamento diretto delle terre - diedero tutto in gestione ai fratres conversi, fratelli laici che utilizzavano manodopera locale nei campi e versavano poi al monastero i tributi e una parte del raccolto.
L’abbazia di Lucedio crebbe in fama e potenza lungo tutto il Medioevo e - grazie alla guida di abati che seppero ben coniugare il senso religioso con la gestione degli affari - le proprietà terriere si estesero oltre il Monferrato, fino al Canavese, con possedimenti che abbracciarono ben sei grange: Montarolo, Darola, Castelmerlino, Leri, Montarucco e Ramezzana. La famiglia degli Aleramici godette di questa potenza riflessa e fece dell’abbazia un luogo sacro e venerato, tanto che molti marchesi decisero di essere tumulati all’interno della cinta del monastero.
Con la fine della dinastia degli Aleramici l’abbazia subì vicende alterne e passaggi di proprietà: prima i Gonzaga, poi i Savoia; nel 1784 il complesso venne infine secolarizzato e i pochi monaci rimasti vennero trasferiti a Castelnuovo Scrivia. L’arrivo di Napoleone, e la conseguente soppressione degli ordini religiosi da lui imposta, portò l’abbazia a passare ancora di mano, diventando un bene di scambio con Camillo Borghese, a parziale risarcimento di quanto requisitogli a Roma.
Caduto Napoleone, Camillo Borghese e i Savoia si contesero il possesso del monastero e delle sue terre, che vennero infine divise in vari lotti per accontentare i litiganti.
L’abbazia di Lucedio passò infine al Duca Raffaele de Ferrari di Galliera, al quale i Savoia conferirono il titolo di principe: nacque così il “Principato di Lucedio”, denominazione che appare ancora oggi sul portale d'ingresso della tenuta.
Nel corso dei secoli l’abbazia di Lucedio non ha mai perso la sua vocazione rurale ed imprenditoriale, e oggi tra le antiche mura possiamo trovare una moderna azienda agricola aperta al pubblico.
L’atmosfera che si respira richiama ancora fortemente il Medioevo e varcando il cancello d'ingresso ci si ritrova circondati dagli antichi edifici in pietra che componevano il complesso monastico. Ogni domenica pomeriggio si possono visitare, accompagnati da una guida locale, alcuni ambienti ben conservati come il chiostro, la sala capitolare e la sala dei Conversi.
Non è invece accessibile al pubblico la chiesa abbaziale, sorta sulle rovine della prima chiesa risalente al 1150 ca: nonostante qualche intervento per la messa in sicurezza, versa ancora in condizioni precarie. Cattura l'attenzione il suo campanile in stile gotico lombardo dall'insolita forma ottagonale; osservandolo dal basso è possibile scorgere nelle bifore dell’ultimo piano una sorta di impronta a forma circolare, dove venivano collocati dei bacini di ceramica che fungevano da faro per i pellegrini sulla via Francigena: riflettendo la luce del sole potevano essere visti da centinaia di metri di distanza e segnalavano la presenza di un rifugio per la notte.
All’interno del complesso abbaziale è presente una seconda chiesa, detta “del popolo”. Eretta nel 1741, era destinata a servire le funzioni religiose per le famiglie dei contadini e in generale per la gente comune di Lucedio: oggi è utilizzata come deposito agricolo e si può ammirare esternamente quale esempio di stile tardo barocco.
Sul retro sorge un’altra piccola chiesetta, detta di Santa Maria, di epoca settecentesca: la sua posizione è anomala rispetto alle norme costruttive del tempo dato che sorge a sud del complesso anziché a nord, dove sarebbe tra l’altro maggiormente illuminata e protetta dai venti. Considerata la pianta della chiesa, l'ingresso a sud richiama alla mente una croce capovolta, stuzzicando fantasie che nel corso dei secoli hanno alimentato ormai celebri leggende occulte.
L’abbazia di Lucedio porta con sé storie di mistero e leggende demoniache: passaggi segreti, abati mummificati, cripte infestate, un fiume sotterraneo e una colonna che piange, testimone di orrendi delitti.
Tutto nacque quando, nel 1684, una presenza malvagia fu evocata nei pressi del vicino cimitero di Darola e prese possesso delle menti dei monaci. Il demonio trasformò i religiosi in uomini avidi e dediti a soprusi, abusando del potere spirituale del quale erano investiti, ma anche di quello temporale per cui già da anni erano noti in quei territori.
La possessione demoniaca rimase a Lucedio fino al 1784 quando il Papa, in gran segreto, mandò un esorcista a liberare i monaci dal demonio, che venne finalmente intrappolato nelle cripte grazie ad un sigillo nascosto; i sotterranei furono murati e le spoglie di alcuni abati, mummificati e seduti su troni, vennero disposte in cerchio per sorvegliare e mantenere vivo l'incantesimo. Qualcuno narra che, quando l’abbazia venne secolarizzata, non tutti i monaci vennero trasferiti: una parte di loro rimase nelle segrete del monastero per proteggerlo per sempre dal maligno.
Testimone perenne di queste atrocità è la colonna che piange, una colonna in solido granito - che ancora oggi esiste all’interno della Sala Capitolare - da cui sgorgano piccole gocce d’acqua come lacrime di dolore. Il suo fusto infatti, a differenza delle altre colonne presenti, trasuda acqua in particolari momenti della giornata. Si tratta in realtà di un fenomeno riconducibile alla particolare porosità della pietra con cui è costruita, che assorbe l’abbondante umidità presente nel terreno per poi trasudarla lentamente - in un secondo momento - all’interno della sala.
Nei paraggi del Principato di Lucedio si trova l'antico cimitero di Darola, che giace in totale stato di abbandono: dalla strada si scorge un sentiero che conduce a quest'unica ed isolata macchia di vegetazione in mezzo alle risaie.
Poche le notizie certe intorno a questo luogo dimenticato: il toponimo Darola potrebbe derivare dalla Corte Auriola, una tenuta nei pressi di Trino posseduta dai marchesi del Monferrato; il cimitero e la chiesa, di stile tardo gotico, potrebbero essere stati costruiti verso le fine del 1500.
La storia del piccolo cimitero di Darola è strettamente collegata a quella dell'abbazia di Lucedio e - come per l'abbazia - anche attorno al cimitero aleggiano sinistri racconti: la leggenda vuole che fu proprio questo il luogo in cui, secoli addietro, il diavolo venne evocato.
Un tempo importante luogo di sepoltura, con lo spopolamento dei dintorni il camposanto perse di importanza, le salme traslate nei vicini cimiteri cittadini, le lapidi dimenticate e vandalizzate, ormai illeggibili. Oggi il luogo è sconsacrato da tempo, coperto dalla vegetazione e infestato da erbacce, anche se pare che le inumazioni continuarono fino agli anni sessanta del Novecento. L'unica testimonianza di antiche sepolture viene da due targhe poste sul muro esterno della chiesa che ricordano due gemelle, decedute nel 1868 a soli 15 anni, e un'altra lapide - forse il padre delle sorelle - scomparso nel 1876.
Nei pressi dell’abbazia di Lucedio si trova il santuario della Madonna delle Vigne: è una bellissima chiesa a base ottogonale, oggi sconsacrata e purtroppo abbandonata all’incuria, ma ciò che rimane di essa ha una sorta di fascino occulto da raccontare. Intorno al santuario, infatti, aleggia l’oscura leggenda che narra dello spartito del diavolo.
All’interno dell’edificio si trova un dipinto raffigurante un organo a canne su cui è riportato un misterioso spartito musicale: secondo la leggenda, suonando lo spartito in un verso si rinforzerebbe il sigillo di protezione contro il diavolo, suonato nel verso opposto - ovvero da destra verso sinistra e dal basso verso l'alto - si evocherebbe nuovamente il demone, liberandolo all'interno della chiesa.
Questa particolare leggenda forse si spiega interpretando i tre accordi iniziali, tipici accordi di chiusura che venivano suonati solo al termine delle composizioni liturgiche medievali: uno spartito dipinto al contrario da una mano demoniaca, una mano che ancora attende oltre lo specchio.
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